Campo rom Salviati – Storia di un impegno non mantenuto dalle Istituzioni

9 ottobre 2013 – Non è facile capire la complessità della “questione rom” del nostro territorio se non si conosce la vera storia che ha portato all’insediamento nell’area di via Salviati. Parlare di emergenza sanitaria e di sovraffollamento senza capire i veri motivi che hanno portato a una situazione di allarmanti condizioni di vita, sia per le persone rom e sia per tanti cittadini che subiscono gli effetti collaterali dei campi, equivale solo a fare della retorica o sterili chiacchiere da bar. In questo articolo vogliamo fornire solo informazioni sui fatti relativi a questo campo senza entrare, per ora, nel merito e nelle difficoltà del problema.
Il Lazio ha il numero più alto di rom in Italia, oltre diecimila con il record a Roma. La Capitale ospita la comunità più grande con 7.100 rom, di cui 2.500 abitano nei campi nomadi abusivi.
Il primo insediamento di via Salviati risale a un progetto del 1994. Era un campo nomadi autorizzato dall’ex sindaco Rutelli ed era tenuto in buone condizioni con una presenza limitata: gli assegnatari (rom di etnia Rudari) avevano case, alberi e condizioni di vita dignitose, nulla a che vedere con l’attuale situazione. La situazione precipitò cinque anni dopo (nel 1999) con il trasferimento di un gruppo di etnia serbo-bosniaca dell’ex Casilino 900 in via Salviati. Nasce così Salviati-2 per distinguerlo da quello esistente. I due campi sono separati per evitare conflitti tra etnie diverse. In base ai patti dell’allora amministrazione capitolina con i cittadini del territorio detto campo, definito tollerato, doveva restare per un periodo limitato fino all’individuazione di un’area più adatta allo scopo.
Il campo di via Salviati-2 era ed è un enorme rettangolo di cemento arroventato con tre o quattro miseri alberelli, situato in mezzo ai prati alle spalle di via Collatina vecchia in un luogo assolutamente isolato; a meno di venti metri dagli ultimi container c’è una importante tratta ferroviaria. I containers erano dello stesso tipo di quelli usati dalla Protezione civile nelle emergenze: rettangoli prefabbricati dove fa caldo d’estate e freddo d’inverno e dove si vive uno sopra l’altro. Questi alloggi, pensati per le emergenze e per nuclei familiari di dimensioni molto inferiori a quelli rom, ospitavano fino a sei persone e al loro interno erano costituiti da un ingresso-tinello con l’angolo cottura, un bagnetto e due piccoli spazi come stanze da letto. Il campo attuale oltre ad essere situato in un ambiente malsano era lontanissimo da negozi per i generi di prima necessità. Inoltre era stato realizzato senza alcuno spazio per la raccolta dei metalli e tutte le altre attività di riciclaggio. Eppure le attività di raccolta costituivano praticamente l’unica fonte di reddito per la comunità rom.
Il campo fu costruito per ospitare 272 persone già in condizioni emergenziali: sei abitanti per ogni modulo di 33 metri quadri (poco più di cinque metri quadri per ogni persona). Al giorno d’oggi, a causa della grande natalità presente fra la gente rom (nel campo di via Salviati nascono circa 11 bambini l’anno), la popolazione è arrivata a 430 persone utilizzando le stesse strutture di allora e portando la disponibilità di spazio a poco più di tre metri quadri per abitante ossia condizioni umanitarie impossibili.
Dal 1994 in poi ogni amministrazione comunale, al di là del colore politico, ha affrontato le problematiche legate alla presenza di comunità rom nella Capitale attraverso la formulazione di Piani Nomadi. Tutti i Piani rispondono a delle ripetute “emergenze” e vengono elaborati in un clima spesso segnato da forti polemiche politiche e mobilitazioni dei cittadini conto la presenza dei “campi”. Immancabilmente, tutti i Piani si pongono l'obiettivo di sgomberare e
trasferire forzatamente le famiglie rom per concentrarle in "insediamenti" sempre più isolati e lontani dal contesto urbano, denominati «villaggi attrezzati», diventati presto luoghi di degrado, violenza e soprusi.
Una politica fallimentare che, oltretutto, ha un altissimo costo per la comunità: segregare costa!

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