24
aprile 2014 – Il prossimo 25 Aprile si festeggerà,
come ogni anno, la Festa della Liberazione dell'Italia
dal Nazifascismo. Questa ricorrenza rappresenta il passaggio dalla
dittatura alla democrazia, per cui appartiene di diritto a tutto il
popolo italiano e non solo ad una parte di esso. A distanza di più
di mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale dobbiamo
comprendere che questa festa deve rappresentare l’unione di tutti
gli italiani e deve ricordare a tutti noi che uomini e donne di tutte
le età sono morti allora, per garantirci i diritti che oggi
godiamo.
In questo articolo rievocheremo uno dei tributi di sangue che il nostro
territorio ha versato per la liberazione e la democrazia del nostro
popolo: l’assalto dei partigiani a Forte Tiburtino meglio conosciuto
come l’eccidio di Pietralata.
Durante i nove lunghi mesi di occupazione nazista (settembre 1943
- giugno 1944) la resistenza delle borgate svolse un ruolo fondamentale
nel quadro della resistenza romana. Abbiamo avuto già modo
di descrivere l’assalto ai forni di Tiburtino III
che costarono la vita a Caterina Martinelli, oggi invece ricorderemo
un’azione partigiana che aveva l’obiettivo di recuperare viveri, armi
e munizioni ma scatenò la rappresaglia feroce delle truppe
di occupazione. Le azioni partigiane nelle borgate spesso sfociarono
in vere e proprie manifestazioni di massa (assalti ai forni, comizi
e dimostrazioni di piazza). Molte di queste operazioni non furono
condotte nella sola clandestinità da gruppi ristretti di combattenti,
ma alcune iniziative furono messe in atto alla luce del sole e con
la partecipazione del popolo spinto dalla fame.
(Da wikipedia):
La mattina del 22 ottobre 1943, una quarantina di partigiani delle
borgate romane di Pietralata e di San Basilio
assaltarono la caserma del Forte Tiburtino, sorvegliata
da sentinelle tedesche ma all’interno della quale erano rimasti viveri,
armi, munizioni e medicinali, lasciati dai militari italiani al momento
dello sbandamento dell’8 settembre 1943. Pur essendo state colte di
sorpresa, le sentinelle tedesche riuscirono a dare l’allarme e i partigiani,
già all’interno del forte, furono circondati dalle SS. Dopo
un breve combattimento, che causò vittime da entrambe le parte,
ventidue partigiani furono catturati per essere imprigionati nel vicino
Casal de' Pazzi. Nel frattempo, tre partigiani erano
riusciti a mettersi in fuga e, nell’antico casale, ne giunsero solamente
diciannove.
I
prigionieri, dopo aver passato la notte nel cortile del casale, sotto
la luce dei riflettori e la minaccia delle mitragliatrici, furono
portati, legati a due a due, di fronte al Tribunale militare tedesco,
situato nella villa della tenuta Talenti, poco lontano. Qui si svolse
un processo sommario, che emise il verdetto – incomprensibile per
gli accusati, perché in lingua tedesca - di dieci condanne
a morte, cinque alla prigionia e quattro ai lavori forzati. I condannati
furono poi riportati al Casal de’ Pazzi.
Nel tardo pomeriggio del 23 ottobre, i nove prigionieri non condannati
a morte, furono prelevati da soldati della divisione paracadutisti
"Hermann Goering" e trasferiti su un camion in un valloncello
tra i campi che fiancheggiano la via Tiburtina, presso
il caseificio di Ponte Mammolo, all'altezza del Km.
10. Qui furono costretti a scavare una fossa di due metri per tre,
profonda due. A notte inoltrata, completato lo scavo, i nove vennero
riportati sul luogo della prigionia. Intorno alla mezzanotte, furono
caricati sul camion i condannati a morte, bendati e legati, e fatti
scendere sul luogo dell’esecuzione. Qui furono fatti inginocchiare
uno ad uno sul margine della buca e trucidati con un colpo di pistola
alla nuca. Il decimo dei condannati era un ragazzo di quattordici
anni, Guglielmo Mattiocci, che indossava dei grossi stivali da ufficiale.
Mentre si stava svolgendo l’esecuzione, un paracadutista tedesco gli
chiese quanti anni avesse e lo fece slegare; un ufficiale della Polizia
dell'Africa Italiana (PAI), presente all’eccidio, gli suggerì
di offrire gli stivali al tedesco, in cambio della salvezza. Il paracadutista
accettò e lo fece nascondere. Nell’andirivieni del momento,
il tedesco fermò allora un ciclista che transitava sulla Via
Tiburtina, Fausto Iannotti, e lo costrinse a salire sul camion.
Quando i suoi camerati tornarono per prelevare l’ultima vittima, lo
Iannotti fu consegnato e accompagnato a morire.
Pur avendo comunicato mediante un manifesto bilingue l’avvenuta esecuzione,
i tedeschi tacquero il luogo dell’eccidio. Solo nel giugno del 1945,
grazie alle ricerche di tre scampati, fu possibile riesumare i corpi
degli uccisi.
Antonio
Barcella
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