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novembre 2014 – Come è abitudine del nostro
sito, cerchiamo di dare informazioni ad ampio raggio in modo che il
lettore possa farsi una propria opinione di quanto accade sul territorio.
Per questo, sui fatti di Tor Sapienza, dopo aver dato spazio alla
cronaca e ai commenti, è ora di dare voce agli immigrati che
sono stati messi sul banco degli imputati dai manifestanti. È
chiaro che si tratta della visione del problema da parte di chi in
questo momento si sente perseguitato ma lo scenario finale resta assai
complesso e ragione e torti ci sono da tutte le parti in questa guerra
fra poveri. Lasciateci soltanto la scelta di dare la parola alle parti
in gioco e non a chi viene da lontano a fare passerella a Roma Est
solo per farsi pubblicità senza conoscere i veri disagi dei
residenti e degli immigrati.
“Lettera aperta dei rifugiati del Centro Morandi di Tor
Sapienza - Tutti parlano di noi in questi giorni,
siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno
veramente ci conosce. Noi siamo un gruppo di rifugiati, 35 persone
provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan,
Mauritania, ecc...Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia;
ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti,
ecc..ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite.
Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia,
i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto,
con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo
lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri
genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti
per fare male a nessuno. In questi giorni abbiamo sentito dire molte
cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili,
che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole
ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né
tantomeno per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi siamo veramente
grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati
soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato
la nostra stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo
qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare
con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi
della città uniti insieme e non divisi. È da tre giorni
che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo ricevuto
insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da scuola e ci siamo
sentiti dire negri di merda; non capiamo onestamente cosa abbiamo
fatto per meritarci tutto ciò. Anche noi viviamo i problemi
del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo
dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra
vita. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita,
e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro
futuro. Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il razzismo,
vogliamo parlare con la gente, confrontarci. Sappiamo bene, perché
lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei nostri Paesi, che
la violenza genera solo altra violenza. Vogliamo anche sapere chi
è che ha la responsabilità di difenderci? Il Comune
di Roma, le autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo
che la polizia arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno
di noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile? Non vogliamo continuare
con la divisione tra italiani e stranieri. Pensiamo che gli atti violenti
di questi giorni siano un attacco non a noi, ma alla comunità
intera. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un
danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia,
per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà.
Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere realmente in pace
con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare
tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una
grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo
aver perso già tutto quello che avevamo.”
Antonio
Barcella
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