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dicembre 2015 -
«Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari
conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa.
Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di
bombe o missili. A
Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato
per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti
bambini feriti dalle cosiddette "mine giocattolo", piccoli
pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette.
Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso
le prenda e ci giochi per un po', fino a quando esplodono: una o due
mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia
e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l'aver
visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.
Mi
è occorso del tempo per accettare l'idea che una "strategia
di guerra" possa includere prassi come quella di inserire, tra
gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del "paese
nemico". Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere
orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie
e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini
sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante
forma di terrorismo nei confronti dei civili.
Alcuni
anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200
pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari.
Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È
quindi questo "il nemico"? Chi paga il prezzo della guerra?
Nel
secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare
un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale
a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più "conflitti
rilevanti" che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda
guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la
percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al
90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel
conflitto afgano.
Lavorando
in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni,
ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e
ho percepito l'entità di questa tragedia sociale, di questa
carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi
in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.
Negli
anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici
per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra
Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività
in ambito medico con l'inclusione di centri pediatrici e reparti maternità,
centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.
L'origine
e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una
serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita
su tavoli operatori e in corsie d'ospedale. Curare i feriti non è
né generoso né misericordioso, è semplicemente
giusto. Lo si deve fare.
In
21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica
a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell'oceano, si potrebbe
dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche
modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso
l'esperienza di Emergency.
Ogni
volta, nei vari conflitti nell'ambito dei quali abbiamo lavorato,
indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione,
il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro
che l'uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime
è la sola verità della guerra.
Confrontandoci
quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito
l'idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati
sulla solidarietà e il rispetto reciproco.
In
realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo
all'indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto
all'istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa
dello Statuto dell'ONU: "Salvare le future generazioni dal flagello
della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha
portato indicibili afflizioni all'umanità, riaffermare la fede
nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore
della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle
donne e delle nazioni grandi e piccole".
Il
legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca
esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella
Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948.
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità
e diritti" e il "riconoscimento della dignità inerente
a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed
inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della
giustizia e della pace nel mondo".
70
anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente
falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente
i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto
a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all'istruzione e alla
sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All'inizio
del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per
pochi.
La
più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei
diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando
il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.
Vorrei
sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti
dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini
e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili
in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia,
Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state
ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.
In
qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho
potuto vedere come la scelta della violenza abbia - nella maggior
parte dei casi - portato con sé solo un incremento della violenza
e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il
terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune,
l'uso della violenza.
Sessanta
anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai
più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto
di Russell-Einstein: "Metteremo fine al genere umano o l'umanità
saprà rinunciare alla guerra?". È possibile un
mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?
Molti
potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero,
ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile,
né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo
impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il
nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro
futuro.
Come
le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da
risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime
l'umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti
gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è
proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge
a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.
Concepire
un mondo senza guerra è il problema più stimolante al
quale il genere umano debba far fronte. È anche il più
urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell'apocalisse,
stanno mettendo in guardia gli esseri umani: "L'orologio ora
si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader
internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante:
assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana".
La
maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell'immaginare,
progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre
il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa
disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali,
deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina
giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.
L'abolizione
della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.
Possiamo
chiamarla "utopia", visto che non è mai accaduto
prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo,
ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata
a compimento.
Molti
anni fa anche l'abolizione della schiavitù sembrava "utopistica".
Nel XVII secolo, "possedere degli schiavi" era ritenuto
"normale", fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha
raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato
la percezione della schiavitù: oggi l'idea di esseri umani
incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell'utopia
è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un'altra utopia che non possiamo attendere
oltre a vedere trasformata in realtà.
Dobbiamo
convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è
una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto
deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a
che l'idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla
storia dell'umanità.
Ricevere
il Premio Right Livelihood Award, il "Nobel alternativo",
incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare
gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento
culturale per l'abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla
comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché
uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa
che possiamo fare per le generazioni future».
-- Gino Strada
ha pronunciato questo discorso a Stoccolma (Svezia) lunedì
30 novembre, durante la cerimonia di consegna dei Right Livelihood
Awards, i "premi Nobel alternativi". Un importante riconoscimento
per il lavoro di Emergency contro la ?guerra? e a favore delle vittime,
un premio di cui siamo tutti molto orgogliosi e che ci spinge a fare
sempre di più, ogni giorno, per raggiungere il nostro obiettivo:
un mondo senza guerre in cui non ci sia più bisogno di noi.
Antonio
Barcella
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