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Acquistata dal produttore cine Valsecchi la Casa di Pasolini a Rebibbia per donarla a Roma Capitale

1 giugno 2022 - La casa romana di Pier Paolo Pasolini in via Giovanni Tagliere 3, nel quartiere Rebibbia dove il poeta ha vissuto all’inizio degli anni ’50, è stata acquistata all’asta dal produttore cinematografico Pietro Valsecchi che la donerà a Roma Capitale. Lo stesso Valsecchi ne ha informato il Campidoglio.

Si tratta - commenta Roma Capitale - di un gesto d'amore nei confronti della città e di un grande intellettuale come Pasolini, proprio in occasione dei cent’anni della sua nascita.

Non appena sarà entrato in possesso dell'immobile, il Campidoglio lavorerà per farne un luogo della memoria pasoliniana.

Difficile capire quale sarà il progetto finale. L’appartamento non è grande – sono circa 50 metri quadri – ed è al secondo piano di una vecchia palazzina da poco restaurata. Uno spazio troppo piccolo per un grande progetto ma di immenso significato per il forte legame di Pasolini con il territorio del tiburtino. Proprio da questa dimora Pier Paolo Pasolini trovò l’ispirazione per i suoi più famosi romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”. Lo scrittore ricordò gli anni di Rebibbia anche nella poesia “Il pianto della scavatrice” di cui riportiamo qualche brano dedicato alla “borgata”.


Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte...
Passano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l'impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
Rinnovato dal mondo nuovo,
libero - una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà
che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.
Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall'allegria
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall'agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.
Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco
di donnette venute dai monti
Sabini, dall'Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme
di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,
i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea
affondati nel loro angolo
tra un'ultima striscia d'erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio...
era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa
maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro - era,
chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita
nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,
come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l'ultimo
sventolio del rotocalco: osso
dell’esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere
fin troppo miseramente umana.

Antonio Barcella
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