6
aprile 2024 - Anche oggi diamo seguito alla pubblicazione
di una delle opere create dai tanti autori che vogliono rendere
omaggio a Caterina Martinelli, eroina di questo territorio.
In questo articolo diamo spazio al racconto “Pane
rosso” realizzato dallo scrittore marchigiano Piko
Cordis, anche lui plurivincitore del Concorso Letterario
promosso dall’Associazione Culturale Vivere a Colli Aniene
e dedicato a Caterina Martinelli.
Piko Cordis è nato ad Ascoli Piceno il 4 luglio del
1968. Si trasferisce per lavoro in Svizzera, a Londra e in
altre parti d’Italia, mantenendo sempre viva la passione per
una ricerca spirituale. Appassionato di lettura, storica in
special modo, si cimenta nella scrittura creativa, prediligendo
ambientazioni medievali e rinascimentali. All’inizio del 2016,
portata a termine la stesura del manoscritto “Veneficus –
il gabbamondo” lo pubblica utilizzando lo pseudonimo Piko
Cordis, mostrando così un attaccamento alle sue radici:
Piko da cui ha origine Picus in stretta relazione con l’etnonimo
latino Picentes (i Piceni); Cordis, in latino “cuore”. Cuore
Piceno. Vincitore di vari premi letterari a livello nazionale,
ha conseguito ottimi risultati anche al Premio Letterario
Caterina Martinelli. Alla sua prima partecipazione nel 2017
consegue una segnalazione di merito per il suo racconto “Abyssus
abissum invocat”. Nel 2018 vince il premio speciale della
giuria con il suo libro “Veneficus - Il Gabbamondo” e una
menzione d’onore con il racconto “L’orco”. Nel 2019 consegue
il terzo posto assoluto nella sezione racconti con “L’eroe”.
Nella classifica dell’ottava edizione del nostro concorso
(2021) si piazza al secondo posto della sezione racconti con
l’opera “America” e una menzione d’onore per il brano “L'irregolare”.
Nel concorso del 2023 figura in due classifiche: nei racconti
consegue il secondo posto con “Le vie dei topi” e nei libri
“Il dominio della penna” riceve una segnalazione di merito.
Pane rosso
L’alba
di un nuovo giorno stava sorgendo su una Roma ferita dall’oppressore
nazista. All’indomani dei moti del primo maggio del 1944,
anche quel secondo giorno del nuovo mese si preannunciava
complicato per la popolazione romana e la resistenza che faticava
a contrastare le armate tedesche che senza pietà commettevano
le peggiori atrocità: uccidendo e affamando il popolo.
Dall’arrivo dei temibili germanici, nel settembre del 1943,
la capitale aveva visto la fuga del re Vittorio Emanuele III,
del capo del governo e dei vertici militari, lasciandola con
un Regio Esercito disorganizzato e civili allo sbando.
Per Caterina Martinelli, una mamma del Tiburtino, gli anni
della guerra non erano stati semplici, aveva ancora nelle
orecchie le esplosioni del 13 agosto del 1943 e gli orrori
dei bombardamenti, ma ancora più viva l’eco degli spari
all’Osteria da Gigetto e le forti immagini dei furgoni carichi
della povera gente rastrellata al Quadraro.
Il quotidiano di Caterina e quella dei suoi sei figli, era
avvolto nella paura e nella sofferenza in un equilibrio precario
per la sopravvivenza.
Le sue lacrime, oltre che per la sua prole erano anche per
la città eterna, una volta gloriosa e maestosa, che
in quel momento era stata piegata e umiliata dai nefasti eventi.
Il Colosseo, il Foro Romano e tutti gli altri monumenti storici,
testimoni oculari, muti e inermi di fronte al dramma più
grande del secolo, sembravano anch’essi piegati allo strapotere
dell’assalitore.
Ogni romano non fascista stava contribuendo come poteva per
contrastare le SS naziste, i più coraggiosi avevano
dato rifugio e speranza a ebrei scampati alle retate e alle
deportazioni, ardimentosi gruppi segreti formati da uomini
e donne si destreggiavano abilmente tra le strade strette
e i labirinti di vicoli, sfuggendo come ombre ai soldati tedeschi
cercando di sopraffarli. Caterina nel suo piccolo contribuiva
come poteva, pia fedele, si recava in chiesa pregando per
un miracolo ma allo stesso tempo era orecchie e sussurri della
resistenza, rischiando la vita.
Madre
coraggiosa, Caterina cercava di nascondere la sua angoscia
di fronte ai volti pallidi e gli sguardi affamati dei suoi
figli. Il suo era un cuore spezzato, il razionamento preteso
dal generale tedesco Kurt Mälzer aveva ridotto a 100grammi
la razione giornaliera di pane destinata ai civili, e questo
aveva affamato i romani. Le razioni di cibo erano scarse e
imprevedibili e Caterina faceva la fila per ore, ma il più
delle volte tornava a casa senza nulla da mangiare, rimediando
come sempre con zuppe di bucce di patate o qualche verdura
nata spontanea nei prati cercando di lenire la fame e i pianti
delle sue creature oltre che con caldi abbracci e dolci carezze.
In quei lunghi mesi aveva visto i corpicini dei suoi bambini
debilitarsi, le loro guance incavarsi e le gambe assottigliarsi
giorno dopo giorno. La notte dormiva poco per via dello stomaco
vuoto, guardava i suoi figli addormentarsi tra i pianti disperati;
li vegliava pregando per un miracolo perché la guerra
stava rubando loro l’innocenza.
Da tempo Caterina meditava di unirsi alle altre mamme del
quartiere per provare ad assaltare i forni, procurandosi l’agognato
pane anche se il mese prima, il 7 aprile 1944, al ponte dell’Industria
di Portuense, dieci donne erano state fucilate per aver partecipato
all’assalto al forno Tesei. Se ne parlava in chiesa, nelle
case come nelle baracche, se ne sentiva la necessità;
la privazione alimentare aveva dato loro il coraggio e lei
aveva accettato di parteciparvi.
Il 2 maggio 1944 tanta gente si era radunata davanti al forno
nella zona di via del Badile per protestare contro le ristrettezze,
tra queste anche Caterina urlava a gran voce la sua disperazione.
Non essendo state ascoltate le donne avanzarono nei locali
del panificio con il cuore in gola. Lei, come altre mamme
fortunate, riuscì ad accaparrarsi una grossa pagnotta
e a scappar via. Il calore del pane appena sfornato la avvolse,
come anche l’odore inconfondibilmente acidulo del lievitato
e il tostato della crosta.
Da fervente cattolica, Caterina era conscia di essere in grave
peccato avendo disubbidito al settimo comandamento, quello
che nel vangelo di Matteo lui stesso biasimava e definiva:
‘leva onore all’uomo’, per lei in quel frangente era motivo
di vergogna, ma necessità per la sopravvivenza della
sua famiglia, e cos’altro avrebbe potuto fare? Così,
senza vanto né gloria per il gesto compiuto, si sistemò
l’ultima nata in braccio da una parte e la pagnotta stretta
al petto dall’altra.
Il tumulto generato aveva fatto accorrere il Corpo di Polizia
Coloniale che cercò di riportare l’ordine, usando la
forza e minacciando di passare per le armi chiunque. Nella
concitazione del momento però, una delle guardie, in
balia dall’eccitazione aprì il fuoco colpendo a morte
Caterina che stramazzò a terra sopra la figlia. Un
gran fiotto di sangue della donna sgorgò dalla ferita
e colando denso a terra sporcò le vesti della bambina
impregnando il pane di quel colore rosso scuro venoso, dal
sapore ferroso. La gravità dell’atto di forza compiuto
originò un confusionario parapiglia dal quale si levarono
grida di terrore e di rabbia. Agli spari in aria intimidatori
si creò un fuggi fuggi generale, che sfoltì
la folla in brevissimo tempo. Ma alcune donne temerarie, sfidando
il ‘fuoco amico’, andarono in soccorso di Caterina, sottraendole
la piccola creatura che venne messa al sicuro. Per la madre
non ci fu nulla da fare, il suo corpo giaceva inerme a terra
nell’indifferenza delle guardie che continuavano a disperdere
i facinorosi, urlando e minacciando.
Il giorno appresso, un cartello venne posizionato nel punto
esatto del martirio della povera Caterina, ne ricordava l’accaduto,
ma la viltà degli aguzzini nazisti e delle miserevoli
autorità fasciste, lo fecero sparire occultando alla
vista l’assassinio di una madre affamata. Oggi per fortuna,
una lapide ne conserva la memoria, ricordando a tutti una
delle tante pagine tristi della storia di Roma, un atto di
coraggio e determinazione dimostrando così che gli
eroi e le donne più valorose della resistenza possono
passare anche attraverso la conquista di un po' di pane.
Nella
carne e nel sangue di ognuno rugge la madre. (Cesare
Pavese)
Piko Cordis
Ringraziamo l’autore per la gentile disponibilità e
collaborazione.