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settembre 2017 - È arrivato ieri in redazione
un messaggio che narra una storia drammatica che ha come scenario
la periferia di una metropoli, la nostra. Un racconto che
fa riflettere sui problemi sociali di una grande città
come Roma e pone un inquietante interrogativo: “ Uno Stato
che non è in grado di dare sostegno ai propri cittadini,
come può dare assistenza a migliaia di persone che
chiedono lo stesso tipo di aiuto? ”. L’accoglienza è
un dovere verso tutti e non si possono chiudere gli occhi
verso i protagonisti di storie così tristi. Vi riporto
il contenuto dell’email del prof. Carmelo senza ulteriori
commenti. “La
storia che riporto qui, fu pubblicata su L’Espresso – Altre
lettere, tra i racconti d’agosto (n.34) 2016. Siamo a fine
settembre 2017, più di anno è trascorso. Ho
incontrato la signora che vive ancora nel sotterraneo adibito
a lavatoio. Mi ha riferito, disperata, che il giudice ha rimandato
l’udienza ancora una volta, questo giudice rimanda sempre,
una volta per un motivo, un’altra volta per un altro. Rimanda.
Che cosa può importare al giudice che la signora sia
ancora lì, in quella sorta di prigione, senza servizi
igienici, con la poca luce e la poca aria mischiata a polvere
che proviene da una grata in alto, a livello del marciapiede?
Ci passerà ancora l’inverno, lei e la sua gatta. Non
ci saranno gli scarafaggi, ma freddo e umidità. Unico
sollievo la musica dei liquami che scorrono nelle tubazioni
fognarie lungo il soffitto.
La gattara
L’ho incontrata il giorno di ferragosto, sembrava quasi contenta
la gattara: “Professò, io non mi arrendo, a novembre
c’è l’udienza, io rivoglio la mia casa”. Era ben truccata,
rossetto, bella pettinatura. Questa mattina, a pochi giorni
di distanza, era distrutta, sembrava persino dimagrita. Forse
era dimagrita. Niente rossetto. Capelli in disordine. Mi ha
visto arrivare con la macchina, si è fermata nell’atteggiamento
di chi ha un appuntamento, fingeva di guardare da un’altra
parte, ma era me che aspettava. Ho capito che aspettava me.
Ho perso del tempo a sistemare il parasole, a prendere la
borsa della spesa nel portabagagli, a chiudere la macchina,
lei guardava altrove, guardava altrove ma aspettava me. Voleva
raccontarmi. Era stata in Circoscrizione assieme all’avvocato,
l’avvocato d’ufficio ovviamente, e aveva appreso che il compagno,
prima di morire aveva fatto le cose perbenino, tutto secondo
la legge, tutto regolare. E adesso le sue speranze erano quasi
svanite. Potrà mai il giudice darle ragione? Povera
gattara e povera la sua grossa gatta dal pelo bianco chiazzato
di nero.
Viveva tranquilla, la gattara, in un appartamento delle case
di edilizia popolare nel quartiere di Tiburtino III, a Roma.
Viveva col suo compagno, assegnatario dell’alloggio. Pensava
a tener in ordine la casa, a fare la spesa, a preparare da
mangiare per sé e per il compagno, e faceva il giro
del quartiere per portare cibo e acqua ai gatti. Tranquilla,
la gattara di Tiburtino III, sino a che il compagno non si
è gravemente ammalato. Quando si è avvicinato
il brutto momento, la ex moglie del compagno si è allarmata
Vuoi vedere che lui muore e nell’appartamento ci resta la
gattara con la sua gatta? E così ha spedito subito
la figlia dal padre gravemente malato. Che fai babbo mio?
Tu muori e lasci la casa alla tua compagna e alla sua gatta,
anziché lasciarla a tua figlia? Poteva il gravemente
malato andarsene nell’aldilà col rimorso di non aver
intestato la casa alla figlia? Che s’arrangiasse la compagna,
s’arrangiassero lei e la sua gatta. E così, il babbo
gravemente malato si è recato all’ufficio che amministra
le case di edilizia popolare e ha fatto intestare il contratto
di locazione alla figliola. Poi un giorno, mentre lui ormai
era più di là che di qua, sono arrivati i poliziotti
e senza rilasciare uno straccio di verbale, un ordine del
giudice alla gattara, e neppure alla sua gatta ovviamente,
hanno cacciato sul pianerottolo la gattara e la sua bella
bestiola col pelo bianco chiazzato di nero. Non le hanno dato
neppure il tempo di raccogliere le sue cose. Dove andare con
la sua gatta? Giù, nel sotterraneo, nei locali della
cantine, c’è un grande locale adibito a lavatoio. Là
si sono sistemate la gattara e la sua bella gatta. Un giorno
andai a trovarla. In fondo alle scale del palazzo, c’è
una porta di ferro rossa, oltre la porta c’è una scaletta
di ferro grigia, scendi e ti trovi tra mura di cemento e tanti
tubi che portano gli scarichi dei sanitari nelle fogne, e
cominci a vedere cadaverini di blatte rosse sottosopra. Un
lungo corridoio tra i cancelletti gialli e rossi delle cantine,
e giungi al lavatoio. Povera gattara, ha appeso persino dei
quadri alle pareti. Un po’ di luce assieme alla polvere arriva
da una piccola grata che dà sul marciapiede. Su uno
dei ripiani per lavare, un fornelletto da campeggio. Un cassetta
di legno vicino al letto fa da comodino. Nella cassetta ci
si è sistemata la gatta. L’acqua c’è. Tanta
acqua. Tanti rubinetti che versano nelle grosse vasche. Non
ci sono servizi igienici. La gattara fa i bisogni sui giornali,
poi mette tutto in una busta di plastica, assieme al terriccio
dove fa i suoi bisogni la grossa gatta, e li getta nei cassonetti
per la raccolta differenziata. Ma agli inquilini del palazzo
la faccenda dei bisogni nei cassonetti non va giù.
Agli inquilini del palazzo non va giù neppure che la
gattara e la sua bella gatta dal pelo bianco pezzato di nero,
vivano nelle cantine. Non sta bene. Non è una bella
cosa. Così dicono.
In questa stagione calda le schifose blatte grosse e rosse
non stanno a loro agio nelle fogne, escono dai tombini e durante
la notte vanno a trovare la gattara e la sua gatta. Forse
per questo agli inquilini non va giù che la gattara
abiti nel lavatoio, non vogliono che viva in compagnia di
topi e scarafaggi. Provano pena. Forse temono che s’ammalino,
la gattara e la sua bella bestiola. Forse. Carmelo D.”
Antonio
Barcella
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